Robe da chiodi

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Le Corbusier e il “Je vous salue Marie”

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Tornato dopo tanti, tanti anni a Nôtre Dame de Haut, mi sono ritrovato davanti alla stessa sensazione di un’inesplicabilità di questo capolavoro. Come da una mente chiara, capace di riportare tutto alla verificabilità di una misura, poteva essere scaturita un’idea architettonica che sembra più l’esito di un lasciare andare la mano?

Per dirla in parole diverse, qui lo spirito (sempre luminoso) di calcolo sembra lasciar spazio ad una grazia. Si è sempre detto che Le Corbu è stato conquistato dalla posizione destinata alla cappella («Il paesaggio, i quattro orizzonti. Autentico fenomeno di acustica visuale. Questi paesaggi dei quattro orizzonti sono una presenza. Sono degli invitati»»): la forma della cappella, determinata dalla memoria di un altro elemento naturale («Un guscio di granchio raccolto a Long Island nel 1946: diventerà il tetto della cappella»), conferma questa tensione ad un’armonia con il paesaggio.

Mi sembra però ci sia un altro fattore che Le Corbu tiene sotto traccia, anche se alla fine emerge in tanti dettagli, pieni di pudore. È il fattore mariano. Si sa dell’intitolazione della Cappella, che sposa devozione mariana e topografia (“de haut”). Le Corbusier sembra lasciarsi prendere per mano: è lui a scrivere di suo pugno le litanie sulle vetrate («dicono le lodi della Vergine»); è lui a prendersi cura della statua posizionata tra due vetri dietro l’altare, su una base girevole in modo da poter essere centrale anche in occasione delle funzioni tenute all’esterno. Sulla porta maggiore sono impresse le immagini crete da lui che fanno riferimento all’Annunciazione (lato esterno) e all’Assunzione (lato interno). In un libretto trovato nel piccolo bookshop, che raccoglie disegni e appunti diaristici di Le Corbu, c’è la riproduzione dell’Ave Maria trascritta a mano dall’architetto; «pleine de grâce» è ribadito a caratteri cubitali nella pagina a fianco e la grafia riflette una grazia percepita.

Il suono stesso del nome di “Marie” sembra ispirare le soluzioni architettoniche. Questo spiega la dimensione di intimità che la cappella trasmette, pur nelle sue prospettive audaci. «È un’intimità che deve irradiarsi su ogni cosa», scrive Le Corbu. E che si irradia anche su ogni persona. Mi viene da supporre che all’origine dell’idea della Cappella ci sia una commozione “mariana”, che conferisce quella dimensione di mantello aperto sotto il quale chiunque trova rifugio (del resto il mantello dell’iconografia della Madonna della Misericordia non è figlio di un pensiero architettonico?)

Written by gfrangi

Agosto 24th, 2021 at 2:11 pm

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Hopper. L’idea nascente, a posteriori

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Era il 9 luglio 1924. A New York nella chiesa Ugonotta sulla Sedicesima Strada, Edward Hopper si sposava con Josephine Verstille Nivison. Lui 42 anni, lei uno di meno, si erano conosciuti molto tempo prima alla New York Art School, dove tutt’e due erano stati allievi di Robert Henri. Si erano rivisti nel dicembre 1922 in occasione di una collettiva alla Belmaison Gallery e in poco tempo avevano stretto i legami tra le loro vite con il matrimonio.

Erano di carattere opposto: lui riservato e di pochissime parole, lei espansiva e sempre pronta a dire la sua su ogni cosa: «Bella, vivace, piccola, rapida nel pensiero e nell’azione, attentissima a tutto quello che accade attorno a lei», l’ha descritta Brian O’Doherty, critico del “New York Times”. «Una delle donne più straordinarie che un artista abbia mai sposato. Riserva a se stessa il privilegio di attaccare il marito, come quello di difenderlo con la medesima energia». Date queste premesse si capisce come Josephine, detta “Jo”, fin da quel 1924 abbia voluto prendere il timone della produzione di Edward iniziando a compilare degli “Artist’s Ledger Books”, libri mastri sui quali riportare sistematicamente tutti i lavori del marito. È un lavoro continuato fino al 1966, anno che precede la morte di Edward. In tutto si tratta di tre “Artist’s Ledger Books” (più un quarto e un quinto con poche annotazioni); Jo, prima di morire, con decisione riconoscente, li aveva donati a Lloyd Goodrich, terzo direttore del Whitney Museum che tanto si era adoperato a sostenere il lavoro di Hopper. Goodrich ha poi lasciato in eredità al museo Libri mastro, riunificandoli così al grande lascito di Jo.

Nel 2012 Brian O’ Doherty aveva curato un’antologia di questi straordinari inventari che oggi arriva anche in Italia grazie a Jaca Book (“Edward Hopper. Dipinti & disegni dai Libri master”, 146 pagine, 50 euro): libro indispensabile per la conoscenza di Hopper, pubblicato in formato che rispecchia quello dei Ledger Books, macchiato purtroppo da una traduzione costellata di errori macroscopici: “Second Story Sunlight”, titolo di uno dei capolavori di Hopper, il famoso “secondo piano al sole”, è diventato “Seconda storia Sunlight”…)

L’autorialità di questi “Artist’s Ledger” è messa in chiaro fin dal frontespizio del primo quaderno: “Edward Hopper. His Work”, in terza persona perché, come viene precisato all’interno, la compilazione è opera di “Jo N. Hopper”. Pagina per pagina si familiarizza con la sua scrittura sinuosa: ogni scheda segue un ordine preciso, con date, titolo, misure in pollici, luogo in cui l’opera è stata dipinta, dove è stata esposta e quando è stata venduta. Segue una descrizione sintetica dell’opera, nella quale prevale quello sguardo “argento vivo” di Jo: osservazioni molto letterali sull’opera si accompagnano a notazioni personali, a volta anche ad ipotesi alternative di titoli (“Office in Small City”, 1953, per lei avrebbe dovuto titolarsi “The Man in Concrete Wall”, riferendosi a quel senso di oppressione dato dalla grande edificio a scatola di cemento). Hopper la lasciava fare e in gran parte dei casi completava l’inventario con notazioni molto più laconiche, com’era nel suo carattere, in cui indicava semplici dettagli tecnici: tela usata, preparazione, tipo di colori. 

L’idea di redigere questi libri mastri era frutto dell’insegnamento di Robert Henri, che aveva tenuto un inventario della propria opera (ben 13 quaderni). Anche con il passare degli anni Jo aveva sempre mostrato grande stima per il loro vecchio professore. Henri, insegnante appassionato e visionario, iniziò a inventariarele sue opere quando era ormai artista maturo. Jo fu invece più avveduta, avviando subito la compilazione: infatti nel 1924 Hopper, per quanto vicino alla mezz’età, era ancora agli inizi della sua carriera.  La prima opera di successo, “House by the Railroad” è datata 1925: venne selezionata per la mostra “Paintings by 19 Living Americans” al MoMA, che poi comperò l’opera nel 1930. Rispetto a libri mastri di Henri però c’è un’altra differenza fondamentale. Il vecchio professore accompagnava le voci di inventario con dei piccoli schizzi solo in funzione di promemoria.

Hopper all’inizio procede allo stesso modo. Poi, a partire dal 1928, prese l’abitudine di riprodurre fedelmente i quadri finiti, disegnando ogni volta, all’interno di una cornice ben definita, prima a matita e poi con penna a inchiostro, il “d’après” della propria opera. Come scrive O’Doherty nel testo introduttivo, Hopper in questo modo «attraverso una riproduzione a posteriori, riconduce la sua opera allo stato di idea. Gli schizzi dei registri, nel loro carattere sommario e concettuale, riportano forse Hopper – e noi – all’idea originale per il dipinto – idea che si dissolve, secondo la sua stessa testimonianza».

Era stato infatti Hopper a parlare più volte, nei suoi scarni scritti o dichiarazioni pubbliche, di un rischio di “decadimento” dell’idea nel farsi stesso dell’opera. «Il soggetto arriva lentamente, prende forma: poi, purtroppo, sopraggiunge l’invenzione», aveva spiegato nel 1962, in una lunga intervista a Katherine Kuh. Il tentativo invece era quello di «fissare ogni volta sulla tela le reazioni più mie intime di fronte al soggetto, così come mi appare quando lo amo di più: quando cioè il mio interesse e il mio modo di vedere riescono a dare unità alle cose». E ancora: «Mi scontro sempre, quando lavoro, con la fastidiosa intrusione di elementi che non fanno parte della visione che mi interessa: l’opera stessa, nel suo procedere, finisce per cancellare e rimpiazzare la visione originaria. La lotta per evitare questo decadimento è il destino, penso, di tutti i pittori a cui non interessa inventare delle forme arbitrarie».

Hopper con questo sguardo a ritroso va dunque ogni volta a recuperare l’idea al suo stato più puro, in un certo senso la mette in salvo. Recupera così quel passaggio cruciale della sua formazione che corrisponde ai lunghi anni dedicati all’acquaforte, una tecnica grazie alla quale le immagini, come lui stesso aveva sottolineato, «arrivavano a cristallizzarsi». Sempre grazie alla disciplina esecutiva e mentale imposta dall’acquaforte era anche maturato quello che in un altro testo O’Doherty ha definito «il fatidico matrimonio tra il pittore e il suo soggetto». 

In questi schizzi “a posteriori” infatti ritroviamo spesso l’idea allo stato puro e nascente. Prendiamo il celebre “Morning Sun” (1952). Nel disegno il tratteggio a penna lascia libero il grande rettangolo del sole che batte sulla parete, reso con il bianco “nudo” della carta, in continuità con il cielo, oltre la finestra, lasciato ugualmente bianco. Si coglie così quella radicalità dell’intenzione che nel quadro si attenua, a vantaggio di una stesura pittorica così calibrata, densa e riflessiva. 

Per il resto gli “Artist’s Ledger Books” sono territorio sotto completo controllo di Jo, che affianca una disciplina descrittiva a vere scorribande. Schedando uno dei capolavori di Edward, “Cape Code Evening”, sottolinea il dettaglio del disegno sul vetro smerigliato della porta della casa, ma poi mette un asterisco vicino al titolo e annota una sua osservazione: «Doveva chiamarsi “Uccello notturno”. Il cane lo sente. Donna finlandese e arcigna. (Lei è uccello notturno). L’uccello è lì ma fuori vista». Per “Second Story Sunlight” (1960) la ragazza sulla balaustra viene liquidata così: «“Brava pupa, sveglia ma turbolenta. Un agnello travestito da lupo”. Citazione del pittore». 

Commovente invece la reticenza che accompagna la didascalia per l’ultima opera di Hopper, “Two Comedians” (1966), dove lei e lui si accomiatano dalla scena, in vesti di clown, con un senso di suprema leggerezza e ironia. Scrive Jo: «Terminata 10 nov. 1966 nello studio di S. Truro… figura bianca su fondo scuro, leggermente verde a d.». Hopper sarebbe morto a maggio del 1967. Lei lo avrebbe seguito 10 mesi dopo. 

Pubblicato su “Alias” il 27 dicembre 2020

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Dicembre 28th, 2020 at 6:00 pm

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Banksy, una mostra sbagliata

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Che senso ha non autorizzare una mostra, ma poi lasciar fare come se nulla fosse, con tanto di proprio nome che compare nel manifesto? È l’ambiguità con cui ci si misura vistando la mostra di Banksy in corso al Mudec, per altro con grande successo. Un’ambiguità giustamente rimarcata da un “collega” di Banksy, lo steet artist Tvboy, intervistato su queste pagine domenica scorsa. Vedendo la mostra viene però un dubbio: che Banksy, così facendo, voglia prendere le distanze da se stesso, o meglio dalla versione commerciale della propria arte. In mostra ritroviamo esposte una grande quantità di immagini celebri, presentate come multipli numerati e tirati anche in 700 esemplari. Quasi tutte le opere sono marchiate dal timbro con il nome dell’artista, ed è difficile quindi pensare non siano state in qualche modo autorizzate: del resto chi le compra ha giustamente bisogno di qualche garanzia di autenticità.

Intendiamoci, non c’è nulla di male nel fatto che un artista che realizza opere pubbliche sui muri di mezzo mondo senza chiedere un euro, organizzi una produzione parallela per dotarsi dei mezzi economici per realizzare quelle sue azioni corsare (e anche banalmente per vivere). Del resto pure il grande Christo, che aveva realizzato a sue spese nel 2015 le passerelle galleggianti sul lago d’Iseo, si finanzia mettendo sul mercato i disegni dei progetti delle sue opere ambientali. Non si capisce quindi il motivo perché Banksy debba nascondere la mano. A meno che lui stesso riconosca l’oggettiva debolezza delle sue opere prodotte per il mercato. La standardizzazione certamente non giova ad un genio trasgressivo come Banksy. Le sue opere replicate, ridotte di formato, messe in cornice e completamente decontestualizzate sono il pallido fantasma di quelle immagini iconiche e taglienti che tutti noi abbiamo negli occhi. Per non parlare di alcune cadute, come le varianti pop dedicate a Kate Moss, pallidissime imitazioni della Marylin di Andy Warhol: il paragone in mostra è impietoso.

Il Banksy vero lo ritroviamo solo alla fine della mostra, quando ci viene presentata, attraverso materiali documentari l’esperienza del Walled Off Hotel, il piccolo albergo che l’artista ha genialmente aperto a ridosso del muro a Betlemme. Oppure nella sequenza di video finale che raccoglie a raffica le sue imprese sui muri di tutto il mondo. Di quelle avremmo voluto sapere molto di più, e invece restano solo immagini indistinte di cui non veniamo a conoscere né la localizzazione, né la storia, né l’impatto che hanno determinato. Forse era questa la vera mostra di Banksy che ci sarebbe piaciuto vedere e che gli avrebbe reso giustizia. Quanto ai multipli sarebbe stato sufficiente un bel bookshop per proporli a fine percorso.

(e non sono il solo a pensarla così…)

Questo intervento è stato pubblicato su Repubblica pagine di Milano il 10 dicembre.

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Dicembre 17th, 2018 at 10:48 am

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Angelo Barone, la pittura che libera dai bunker

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Leggevo sul Corriere della Sera a proposito del libro che raccoglie il lavoro fatto in questi anni da Alterazioni Video e da Fosbury Architecture questo pensiero di Robert Storr: «Se da un lato le rovine mi attirano, penso che la venerazione delle rovine nell’arte occidentale abbia portato spesso una feticizzazione del passato, della morte, un po’ preoccupante. Quindi, se possibile, è più affascinante contemplare le rovine del ventesimo secolo». Il riferimento è alla raccolta degli incompiuti architettonici censiti e fotografati nel libro. Un fenomeno che affligge in modo quasi epidemico il Sud e in particolare la Sicilia. Ho associato questa riflessione al fatto che dalla Sicilia viene anche Angelo Barone, artista di Modica con studio oggi a Milano. Barone nei giorni scorsi ha presentato una mostra-installazione a Firenze negli spazi di Patrizia Pepe (titolo: “Apparenti stretti”). Il lavoro di Barone si pone a ponte tra pittura, scultura e architettura. La concezione di partenza è certamente architettonica e nell’incertezza rispetto alle funzioni possibili di queste forme è facile cogliere affinità con il non senso dei “rovine nuove” disperse nella terra della sua Sicilia. L’assenza di funzione rendendo enigmatiche queste forme, conferisce loro un’inattesa potenza e iconicità. «Oggi l’episteme architettonico non esiste più», dice Barone nell’intervista ad Angela Sanna che accompagna la mostra fiorentina. «Il mio lavoro a volte trae forza da questa confusione. Si articola su quest’idea di perdita delle forme e quindi sull’incapacità di percepire le forme per quello che essere rappresentano». Dall’intuizione dell’oggetto architettonico Barone passa ad un’elaborazione che è oggetto scultoreo e che trova il suo sbocco più affascinante nella pittura. Perché è sulle tele (di grandi dimensioni e montate quasi a comporre un polittico) che l’enigmaticità di quei volumi sembra espandersi a tutto lo spazio che li accoglie. In questo modo la loro forza evocativa si moltiplica, anche grazie al sorprendente connotato cromatico che assumono. Una soluzione del tutto inattesa, perché antitetica all’uniformità di volumi senza funzioni e quindi senza bisogno di codici cromatici. Barone invece inverte l’ineluttabilità di quel destino. Lavora partendo dalla base di fotografie dei volumi costruiti da sé stesso (bunker e poi casematte); poi passa con veli stratificati di colore in trasparenza: a volte anche dieci passaggi. Questo fa sì che quei volumi senza funzione e a volte brutali nella loro ottusa compattezza, sembrano liberarsi della loro grevità e navigare nello spazio come scatole magiche e leggere. Non perdono nulla del rigore compatto e impenetrabile che è alla base delle loro forme, anzi acquistano in monumentalità. Tuttavia la chimica dell’intervento pittorico sembra capace di svelarne l’inconscio. Che non è da incubo come avevamo presunto, ma esattamente opposto. «Piuttosto magnifiche», dice Storr delle forme di Incompiuto siciliano. Potremmo dire lo stesso dell’esito del percorso di Angelo Barone. E chissà che quella di Barone possa essere anche una visione contaminante per le rovine siciliane…

Qui per notizie sul libro Incompiuto. La nascita di uno stile edito da Humboldtbooks

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Maggio 27th, 2018 at 2:58 pm

Michelangelo in Duomo e altri pensieri domenicali

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C’è una ragione anche storica perché la Pietà Rondanini faccia tappa in Duomo, dopo San Vittore e prima della sua nuova sistemazione, all’Ospedale degli Spagnoli. Sarà posizionata, sempre che nessuno si metta di traverso, nel transetto destro davanti alla tomba di Gian Giacomo de’ Medici, detto il Medeghino. Figlio di un ramo minore dei Medici, si costruì con spregiudicatezza una straordinaria carriera politica e militare. Quando morì suo fratello che era diventato papa, Pio IV (loro sorella era invece la mamma di san Carlo, Margherita Medici di Marignano), aveva chiesto a Michelangelo, come racconta Vasari, di progettare la tomba da sistemare nel Duomo milanese. Michelangelo non riuscì a realizzare la commessa, ma in compenso avrebbe realizzato il disegno della tomba monumentale, a cui l’autore. Leone Leoni, si è attenuto. Quindi la presenza seppure per breve tempo, della Pietà, coeva al monumento del Medeghino, risarcisce in un certo senso per quella mancata realizzazione.


Vista la piccola, bella mostra in omaggio a Giulio Einaudi realizzata dal nipote Malcom nelle sale laterali di Palazzo Reale a Milano. Una sala è tappezzata da tutte le copertine dei Coralli, la collana di narrativa iniziata con Pavese nel 1947. 312 libri (non solo copertine) incorniciati e sistemati con grande ordine.
A parte la bellezza grafica che contrassegna senza cadute 40 anni di storia, è affascinante l’intuizione, dopo che l’inizio era stato affidato a un illustratore, di abbinare un’opera d’arte a ciascuno titolo. Con scelte a volte di grande ricercatezza: come il meraviglioso e millimetrico particolare preso dal quadro dei Proverbi di Brueghel per Il Coltello di pietra di José Revueltas (1948)

Bello l’estratto dall’introduzione del nuovo libro di Camille Paglia uscito negli Usa (Glittering Images: a Journay Throught Art from Egypt to Star Wars), di cui avevamo già letto un’intervista sul Corriere. Riporto: «Benché sia atea, rispetto tutte le religioni e le prendo seriamente, come vasti simboli che contengono una verità profonda sull’esistenza umana. Anche se nel suo nome si è fatto del male, la religione stata una forza enorme di civilizzazione nella storia del mondo. Schernire la religione è una cosa puerile, sintomatica di un’immaginazione rachitica. Eppure, questa posizione cinica è diventata di rigore nel mondo artistico, un ulteriore sintomo della banale superficialità di tanta arte contemporanea». Dall’altra parte «i conservatori a loro volta, hanno peccato contro la cultura. Nonostante i loro squilli di tromba per un ritorno dell’educazione al canone occidentale, si sono comportati come filistei di provincia rispetto alle arti visive».

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Gennaio 20th, 2013 at 3:29 pm

Quando la pittura fa camminare. Tiepolo e Hockney

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Il Tiepolo “ricomposto”

Sentite che coincidenza. Il settimanale Panorama mi chiede un articolo su una mostra curiosa che si apre a Udine a metà novembre: verrà ricomposto un celebre quadro di Tiepolo, dipinto per un palazzo veneziano e poi tagliato per renderlo appetibile al collezionismo inglese, probabilmente già a metà 700. Risultato, la tela di quattro metri oggi è divisa tra Edimburgo (Il ritrovamento di Mosè) e Torino, Museo Agnelli (il fantastico Alabardiere con grande paesaggio di montagne innevate viste dalla laguna). Per trovare qualche spunto, apro il bellissimo libro di Alpers e Baxandall su Tiepolo e trovo questa lettura: il taglio del quadro non va semplicisticamente spiegato con ragioni di misure e di mercato, ma con la difficoltà a recepire la novità di Tiepolo. Che non costruiva più quadri attorno a un centro, ma mentalmente si era assestato su un modello compositivo nuovo, che sottrae a chi guarda un punto di osservazione prestabilito e lo induce quindi a muoversi per sperimentare vari punti di vista. Non a caso, scrivevano Alpers e Baxandall, i grandi capolavori di Tiepolo sono in ambienti di transito. È lì che lui si trova a proprio agio: la Galleria del Palazzo Arcivescovile, l’anticamera di Palazzo Clerici e soprattutto l’immenso soffitto di cielo che si svela salendo lo scalone del Palazzo di Würzburg. È la modernità di Tiepolo quindi che non è stata compresa e ha “legittimato” il taglio della tela ora ricomposta in un’unica cornice a Udine.
Il giorno dopo prendo in mano il nuovo stupendo libro intervista a David Hockney (A bigger message, Einaudi) e a pagina 181 trovo la stessa identica osservazione sul Tiepolo di Würzburg, il capolavoro che si dischiude man mano che ci si muove («E i personaggi non sembrano mai fuori posto. Funzionano da ogni angolazione», dice Hockney). Evidentemente il problema del Tiepolo tagliato non era di essere troppo grande ma di essere già troppo nella modernità.

Written by gfrangi

Novembre 5th, 2012 at 7:02 pm

Flash di fine domenica. Rothko, Pontormo e Matisse

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Ieri il Workshop Rothko a Casa Testori è funzionato benissimo. Una quarantina di partecipanti, oltre tre ore di lavoro seguito da tutti con grande attenzione. Alla fine tutti chiedevano di ripetere l’esperienza. Ci penseremo. Intanto devo annotare che l’approccio a personaggi di queste dimensioni deve essere non frontale. A Rothko si è arrivati per strade diverse (il filosofo, lo storico dell’arte, l’attore, il pittore). E alla fine con questo accerchiamento sono emerse schegge di ragionamento che portano più dentro la sua grande pittura. È come un laboratorio aperto, da proseguire poi ciascuno con i propri sguardi. Annoto tra le tante schegge, quella di Massimo Kaufmann, che si è preso cura di studiare le dimensioni delle tele di Rothko, per scoprire che le sue proporzioni non sono mai standard, ma sempre potentemente esatte. Lui stesso le ha prese a prestito per suoi quadri, verificandone energia e precisione.

Oggi, di ritorno da un bell’incontro con gli amici dell’Economia di Comunione a Incisa, mi sono fermato a Poggio a Caiano per rivedere una delle immagini più folgorante della mia gioventù: la lunetta di Pontormo. Arrivo con Filippo alla Villa (di una monumentale leggerezza: quintessenza di ciò che è l’Italia). Scopro che le visite sono ad ogni ora. Aspettiamo quindi una quarantina di minuti; attorno il paesaggio è un po’ depresso, con il portico in restauro e le aiuole tutte spelacchiate. Alle 15,30 la porta si apre, entriamo e una gentile guardiana con Mibac stampigliato sulla camicia azzurra ci avverte che è una visita “accompagnata ma non guidata”. Una formula che non avevo mai sentito prima d’ora. Dalla guardiola intanto sbucano altri quattro guardiani che si distribuiscono nelle varie sale. Mi chiedo: perché ho dovuto aspettare 40 minuti fuori? E non sono un po’ troppi cinque guardiani, anche gentili, che per di più non sono stati neppure formati a guidare chi entra?

Oggi Repubblica dedica un’anteprima all’uscita della ristampa anastatica di Jazz di Matisse. La ritengo una delle creazioni più grandi di tutto il 900: grande perché assolutamente felice. Spiace che una cosa così bella, che dovrebbe stare sotto gli occhi di tutti specie in tempi complicati come questi, finisca con l’essere oggetto raffinato per pochissimi dato il prezzo che l’edizione avrà. Oltretutto anche i testi di Matisse sono tutti da leggere (come dimostra quello straordinario che Repubblica pubblica nelle due pagine di anteprima). Suggerisco una scappatoia un po’ corsara: su Amazon.de potete trovare a meno di 30 euro l’edizione Prestel Verlag. È vero che i commenti sono in tedesco, ma le immagini non hanno lingua e i testi di Matisse sono in francese… Ve lo suggerisco.

Written by gfrangi

Settembre 23rd, 2012 at 9:17 pm

Una delicatissima Pietà tra le pagine de Il Manifesto

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Jean Malouel, La Pietà, Louvre

Imprevisti percorsi dell’informazione: è da Il Manifesto di domenica (inserto Alias) che sono venuto a sapere, attraverso un documentatissimo articolo, di questa Pietà recentemente acquisita dal Louvre. Un’acquisizione di grande importanza, perché il catalogo di questo artista arrivato dai Paesi Bassi alla corte di Borgogna nell’ultimo scorcio del 300, si conoscono solo altre tre opere, una delle quali è proprio al Louvre. Una pagina intera del quotidiano, con l’immagine che campeggia con la delicatezza delle sue linee e dei suoi colori: un colpo d’occhio davvero emozionante. La Pietà è di altissima poesia, con il corpo di Cristo nudo che s’allunga frontalmente senza dar nessuno scandalo per tutta la tavola. Le figure sembrano tutte disposte con l’ordine dei petali di un fiore. Scrive Claudio Gulli: «Si tratta di un’opera di una ricchezza rara: colori rari – sfoglie di lapislazzuli, miscele calde di lacca, minio e vermiglione, gli squilli del giallo di piombo-stagno – accendono il contrasto emotivo fra l’atterramento di Cristo e il doloroso contegno degli astanti». La tavola è arrivata al Louvre in modo rocambolesco (tant’è che sul sito del Museo non ne ho trovato ancora traccia): era infatti conservata nel presbiterio della parrocchia di Vic Le Comte paesino nel centro sud della Francia. Nessuno ne conosceva l’importanza, e il parroco decise di venderlo per far fronte a spese urgenti. Intercettato sul mercato da un privato, ora è arrivato al Louvre che lo ha pagato 7,8 milioni, alla condizione che 2,7 tornassero al comune che dell’opera si era visto improvvidamente privato. Dal 16 maggio è visibile alla Galerie Richelieu. «Un dipinto che sarebbe piaciuto a Luciano Bellosi», ha detto Dominique Thiébaut, la conservatrice della collezione dei primitivi del museo parigino (che ha pubblicato per l’occasione anche un agile libretto su quest’opera). Una ragione in più per ammirarla.

Written by gfrangi

Maggio 29th, 2012 at 9:37 pm

Un consiglio al giovane curatore: osservare, osservare, osservare…

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Anne d’Harnoncourt

Ho trovato queste righe in un libro che vi suggerisco di leggere, Breve storia della curatela di Obrist (Postmedia Books). Le ho trovate nell’intervista (che fa parte del libro) ad Anne d’Harnoncourt, già direttore del Philadelphia Museum of Art (è morta nel 2008; l’intervista è del 2006). A Obrist che le chiede quale consiglio darebbe a un giovan curatore, lei risponde così:
«Credo che il mio consiglio non cambierebbe molto: osservare, osservare, osservare e osservare, e poi osservare di nuovo, perché niente sostituisce l’osservazione…. Non vorrei essere, in termini “duchampiani”, solo retinica, non è questo che voglio dire. Vorrei stare con l’arte: ho sempre pensato che fosse una bellissima frase quella di Gilbert & George “tutto quello che chiediamo è di stare con l’arte”… È un privilegio, è una responsabilità, è un onore; è scoraggiante passare molto tempo con l’arte e con gli artisti, perché vorrei rendere loro giustizia. In realtà questo l’ho imparato sia dai giovani curatori che dai miei insegnanti… Credo che prima di tutto non si smette mai di imparare, bisogna sperare di avere davanti una lunga corsa prima di non potere veder più nulla, prima di vedere solo cose che conoscevi e che già ti entusiasmavano. Credo anche che una delle maggiori opportunità nella vita di un curatore sia quella di cambiare idea, veder il lavoro di un artista che non capiva o che non gli piaceva, o che non riusciva a mettere insieme dieci o vent’anni fa, e improvvisamnte girare l’angolo e vdere magari la stessa cosa, o magari qualcosa di diverso dello stesso artista ed esclamare: “Wow! Questa è una cosa che è importante vedere”».

Ps: Come può una persona stare con l’arte? Sentite come rispondono Gilbert & George: «Oh arte da dove arrivi, chi dato vita ad una tale stranezza? Per che genere di persone sei fatta: sei per i forsennati, per i poveri di cuore, per chi è senza anima? Fai parte del fantastico mondo della natura o sei l’invenzione di qualche uomo ambizioso? Provieni da una lunga stirpe di arti? Diventare artista è rinascere oppure è una condizione della vita?» (dall’introduzione delle stesso libro di Obrist)

Written by gfrangi

Maggio 10th, 2012 at 4:09 pm

L’allegria di Giacometti

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Ci ha pensato su per 50 anni. E alla fine Paola Caróla, psicoanalista napoletana, ha raccontato in un libretto appena uscito la sua storia di modella per Alberto Giacometti. Leggendolo se ne capisce la ragione profonda: Paola Caróla vuole riscattare la figura di Annette, la moglie di Giacometti violentemente attaccata nella biografia di John Lord (un attacco che scandalizzò gli amici di Giacometti che avevano fatto un’inserzione sulla London Review of the books per difendere Annette. Tra le firme c’era anche Bacon). Paola Caróla posò alla fine degli anni 50, per un solo busto. Ma l’amicizia con i coniugi Giacometti si protrasse per molto tempo sino alle rispettive morti. Era una di casa: sono belle le descrizione dello studio a cui faceva da contrasto la stanza al piano di sopra, tenuta spartanamente linda da Annette: un quadro con le mele al muro, un letto un tavoilo sempre con fiori freschi al centro. È una stanza che rendeva Giacometti allegro. A volte si metteva a saltellare come un clown, a volte si concedeva complimenti molto canzonatori. La storia tra lui e Annette era una storia che reggeva anche ai tradimenti reciproci. «In fondo tra tutti i nostri amici siamo ancora la coppia che si intende meglio», aveva detto davanti a Martine Neeser, cugina di Annette. Scrive la Caróla: «A mio avviso la scultura era una sorta di intermediario tra marito e moglie, e allo stesso tempo oggetto di unione e diversità. Esprimeva la forza della loro reciproca appartenenza».
Quanto all’allegria, che per la Caróla era una componente strutturale di Giacometti, «nasceva dal concreto, da una limpidità di pensiero, da un discorso essenziale e diretto». E ancora: «Mi è successo di pensare che le sue sculture potessero essere ugualmente considerate come espressioni della soluzione al problema della solitudine, e dal vuoto che creano intorno a esse, cioé a partire dallo spazio che le determina, si stabilisce un legame con tutto ciò da cui esse sono separate».
(ho sempre pensato che fosse un amore e non un’ansia quello che muoveva Giacometti e che lo ha fatto smarcare dall’esistenzialismo in cui pure era immerso).
Nella foto: un abbraccio appassionato di Alberto ad Annette, a Stampa. Sotto, Paola Caróla con il busto di Giacometti.

Written by gfrangi

Luglio 13th, 2011 at 9:59 am